mercoledì 27 giugno 2007

Il discorso di Veltroni secondo gli esperti

Riportiamo una analisi tratta da La Stampa.it su alcuni punti salienti del discorso di Veltroni

La leadership
di LUCA RICOLFI
Habemus papam. Infine Veltroni ha parlato e si è candidato. Ha letto un bel discorso, di cui ognuno potrà apprezzare più di un passaggio. A me è piaciuto soprattutto quando ha ripetuto più volte: basta, voltiamo pagina, lo dico con «fermezza e con gentilezza», non possiamo continuare a considerare completamente negativo tutto quel che è stato fatto da chi ha governato prima di noi. Un segnale di mitezza e di maturità, di buona educazione e di civiltà politica, che è credibile proprio perché a dirlo è lui, Walter Veltroni, che in tutti questi anni il rispetto dell’interlocutore lo ha messo in pratica, regalandoci un’immagine della politica molto diversa da quella di tanti suoi amici e compagni. Se però lasciamo perdere i gusti personali, e andiamo alla sostanza del discorso politico di Veltroni, è difficile non notare che il futuro candidato premier del centrosinistra ha eluso la madre di tutte le domande: come mai tutte le belle cose che dite di voler fare, una volta arrivati al governo non riuscite mai a farle? Tradotto più crudamente: perché la ciambella che non sta riuscendo a Prodi dovrebbe riuscire a Veltroni? Probabilmente Veltroni una risposta ce l’ha. Forse pensa che la sua vaga proposta di patto fiscale – aliquote più basse, minore evasione – basti a riconquistare il Nord, peraltro sostanzialmente ignorato nel discorso. Forse pensa che i nove partiti dell’Unione litighino da mane a sera solo perché Prodi non ha abbastanza carisma. O forse crede che la debolezza del governo dipenda da fattori istituzionali rimovibili, come la legge elettorale e il bicameralismo. Su questo punto fondamentale il discorso di Veltroni è muto, ed è un vero peccato. Perché l’altro passaggio che ho molto apprezzato è quello in cui ha detto che la democrazia può morire non sono per un eccesso di potere decisionale, ma anche per un deficit di decisioni. E’ questo il problema di Prodi oggi, ma nulla fa pensare che non sarebbe il problema di Veltroni domani.

Il nord
di GIUSEPPE BERTA
La novità della media impresa, la grande industria che vince la sfida e risorge, il passaggio dall’economia della manifattura a quella dei servizi. E poi Torino, prima capitale d’Italia, terreno sperimentale d'innovazione, simbolo della modernità industriale e del lavoro, frontiera europea. Non sono stati pochi i momenti del lungo discorso di investitura di Walter Veltroni che hanno fatto riferimento al Nord. O almeno a quella parte del Nord più vicina alla proposta politica di un centrosinistra che è spesso relegato ai margini o in posizione difensiva dalle trasformazioni della realtà settentrionale. Difficile però che questi riconoscimenti, uniti alla promessa di una riduzione del carico fiscale che diverrà possibile se a pagare le tasse saranno tutti, possano guadagnare consensi nel Nord alla nuova formazione politica. Perché Veltroni è un comunicatore sapiente, ma il suo discorso, per quanto calibrato, è destinato a suonare artificioso. La sua visione resta quella di un politico di lungo corso, attentissimo nel dosaggio delle parole, che deplora la precarietà giovanile e, nello stesso tempo, ricorda il sacrificio di Marco Biagi. Che cosa manca nelle sue parole perché la soluzione del Partito Democratico possa risultare accattivante proprio là dove il centrosinistra va perdendo suffragi e radici? Manca il senso della partecipazione profonda a una società che resta l’area più dinamica d’Italia e che non tocca del resto al sindaco di Roma esprimere. Manca, se si vuole, quel timbro di fiducia nelle proprie risorse che dal Nord emerge, quando viene messo alla prova. E manca, infine, la prospettiva di una realistica riduzione del ruolo e dell’invadenza della politica, che accetti di assecondare il mutamento sociale piuttosto che di guidarlo. Una prospettiva che forse spetta ad altri esponenti del centrosinistra, da Pierluigi Bersani a Enrico Letta, di disegnare.

Il riformismo
di ANDREA ROMANO
E’ un compito titanico, quello che si è dato Veltroni con un discorso efficace nei toni e ricco nei contenuti. Il compito di chi si candida a presidiare un territorio politico molto vasto, nel quale possono riconoscersi tutte le diverse anime del centrosinistra. Coloro che volevano meno mitologia e più concretezza hanno avuto un buon numero di ricette tutt'altro che generiche: sulla spesa pubblica, sul fisco, sui poteri del presidente del Consiglio. Coloro che chiedevano risposte precise in materia di Tav e sicurezza sono stati soddisfatti, con l’assunzione di un impegno niente affatto scontato per gli attuali standard dell'Unione. Infine, quell’area alla sinistra del Pd che ha già incoronato Veltroni ne ha ricevuto in cambio l’adesione ad una visione del mondo nella quale il grande nemico da battere è la precarietà della vita e del lavoro. Se la leadership si misura sulla capacità di rendere possibile l’impossibile, da oggi Veltroni è davvero il leader del centrosinistra italiano. Di quello reale e non immaginario: un campo nel quale riformisti e massimalisti convivono a contatto di gomito, ogni giorno mandandosi al diavolo e ogni giorno rinnovando i sacri voti di un’alleanza che non ha alternative. Per ognuno Walter ha avuto un segno di attenzione, un impegno, una parola. E da ognuno si prepara ad incassare un solido risultato politico, com’è giusto che sia per una missione personale che non prevede alternative alla vittoria. Per il Veltroni che archivia il tatticismo per giocare la partita della vita la guida del Pd è solo una tappa, perché da oggi il suo titanismo inclusivo guarda già al traguardo sempre più vicino delle elezioni politiche. Nessuno si senta escluso, dunque, perché il viaggio sarà breve e senza ritorno. Ma ritmato dall’antica allegria di sentirsi diversi e migliori.

Politica estera
di GIOVANNI DE LUNA
C’era un senso di ineluttabilità nella marcia del Partito democratico verso il centro. Più che una decisione consapevole, una deriva inerziale che aveva lasciato scoperti vasti territori, tanto da far pensare che negli spazi della vecchia sinistra potessero fronteggiarsi due forze più o meno equivalenti: il Partito democratico e la «cosa rossa». La candidatura di Veltroni nasce anche per arrestare questa deriva. Il suo discorso presenta due passaggi importanti: il primo relativo alla «precarietà» come nemico principale, il secondo sul ruolo della politica. La precarietà descritta da Veltroni non è solo quella economica legata al mercato del lavoro; c’è una dimensione esistenziale che dal posto di lavoro rimbalza nell’insicurezza collettiva, nel disagio delle periferie assediate, nell’impossibilità di fissare confini certi per il patto delle generazioni. Il confronto con questa precarietà obbliga la politica a rinnovarsi in una direzione che ripropone la crucialità della «scelta» come asse strategico della legge elettorale e delle riforme istituzionali. C’è una ferita aperta nella democrazia; troppo distanza tra l’espressione della volontà dei cittadini e le conseguenze sul piano politico; troppe mediazioni burocratiche che hanno solo la funzione di perpetuare un ceto politico famelico e improduttivo. Sono mancate due parole in quel discorso: guerra e laicità. Veltroni ha fatto un doveroso riferimento ai Dico; ma ha riferito ancora tutto alla «laicità dello Stato», quando è proprio la crisi della statualità che ci obbliga a ridefinire i concetti che nella parola laicità sono confluiti in passato. E così è per la guerra. Un partito nuovo non può non preoccuparsi di dare un senso alle vecchie parole. Le guerre di oggi sono elemento costituivo del disordine mondiale. E rinviano all’appannarsi della statualità e della sovranità nazionale. Non gli si chiedeva una linea di politica estera, ma solo la consapevolezza delle discontinuità politiche e concettuali che attraversano il nostro tempo.

La sicurezza
di LUIGI LA SPINA
E’ stato il colpo più abile per sedurre l’anima moderata del paese, ma anche l’esempio più chiaro del «metodo Veltroni» per convincere l’avversario. Sottrarre alla destra il monopolio del tema sicurezza, come quello della riduzione delle tasse, costituisce un obbiettivo fondamentale di quella revisione ideologica che, in tutto il mondo, la parte più moderna della sinistra sta cercando di compiere nel vecchio bagaglio delle parole tabù. Il futuro leader del Pd, peraltro, può rivendicare questa proposta di «rivoluzione culturale» nel suo schieramento come un impegno che sta conducendo da molti anni e che gli ha procurato pure accuse di trasformismo o di sospetta trasversalità. Il modo con il quale Veltroni ha cercato di convincere gli italiani che volevano essere rassicurati contro quella «percezione d’insicurezza» che sta dilagando nelle nostre città è, però, tipico della sua ricerca del consenso nell’interlocutore. Il sindaco di Roma parte sempre dalla piena condivisione delle ragioni di chi gli parla, per dimostrare che la propria ricetta per risolvere il problema esposto è più efficace e persino più radicale di quella che gli viene proposta. L’integrazione dell’immigrato, se viene accoppiata alla severità contro chi delinque, è la via più sicura per ridurre quel rancore e quella disperazione che inducono a violare la legge. Una strada, dunque, migliore di qualsiasi ricorso a mezzi più coercitivi e drastici. Ecco spiegato il «miracolo» di Veltroni, che è sempre più ambientalista degli ambientalisti, più liberale dei liberali, più di sinistra della sinistra e, in fondo, anche più a destra della destra. L’ironia è facile, ma se avesse ragione?

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