lunedì 28 maggio 2007

Il problema è (ancora) l'autoreferenzialità

Il dibattito e le riflessioni dell’ultima settimana continuano a ruotare attorno all’evocazione dello spettro della crisi, ma anche della rivoluzione del ’92. Fu crisi e in parte rivoluzione, o almeno, l’illusione di una rivoluzione a più facce, quella del maggioritario, quella dell’anti-politica che difende i cittadini, quella del nuovo miracolo italiano. Allora c’era il malcostume diffuso, c’era il dissesto economico, c’era l’inevitabile fine di un epoca.

Associare o concentrarsi maggiormente sui costi e sui privilegi, ormai insostenibili e indifendibili dal sistema economico, della politica per spiegarne la crisi di oggi e soprattutto il distacco che si è creato tra eletti ed elettori, lascia sullo sfondo motivazioni altre, ben più profonde, che allora, nel ’92, forse erano solo embrioni e che oggi sono apparse in tutta la loro forza.

Sul Riformista di venerdì Claudia Mancina arricchisce il carnet delle ipotesi spostando l’angolo di visuale sulla inefficienza dei governi, di destra e sinistra, che intrappolati da anni nelle stesse discussioni, provocano quel malcontento diffuso di cui oggi si legge.

I costi della politica intesi come privilegi e sprechi, vanno tagliati, affrontando sistematicamente le riduzioni, razionalizzando e riducendo senza mortificare la politica con un processo populista, ma proponendo un ottica e un’etica di responsabilizzazione della cosiddetta classe dirigete a tutti i livelli.

Ma la necessità di tali interventi, non completa il quadro delle istanze che dividono i cittadini-elettori dai rappresentanti-eletti.

Se chiediamo alla gente, cosa sia la politica, otteniamo – forzando a verbalizzare ciò che non si sa, non interessa, non si sente proprio – risposte banali e di sfiducia.

Si rappresenta come un’isola volante, alla deriva, senza contatti con la terraferma, chiusa, autoconservativa, riflessa a se stessa e offerta ogni tanto in spettacolo mediatizzato ad un pubblico poco interessato e poco partecipativo.

Intorno, lontano, persone, cittadini, elettori, gente che vive dimenticando cosa sia, a cosa serva, quanto e come sia passione ed azione collettiva. La politica, questa sconosciuta.

Il problema, dunque, è a nostro parere l’autoreferenzialità che non permette alla politica di interpretare e coinvolgere, di rappresentare e proporre percorsi di partecipazione alla società contemporanea.

Come il malcostume dei privilegi e dei costi, come l’inefficacia e la bassa incisività dei governi, l’incapacità della politica di fornire una rappresentazione della società che sia davvero aderente alle dinamiche di trasformazione tutt’ora in corso e che sempre di più caratterizzeranno uno scenario “liquido” in continuo divenire, è da ritenersi un importante fattore di distacco e soprattutto di incomprensione e sfiducia, degli individui.

Oggi il ceto politico – governo ed opposizione – non riesce ad individuare visioni che rendano più partecipata, facile, utile la politica, non propone narrazioni-paese differenzianti ed efficaci – le storie che il popolo vuole sentire, per dirla con Mitterand.

Tale situazione sembra produrre anche la saturazione dei due modelli politici italiani: quello della prima Repubblica, con la dominante delle subculture cattolica/comunista; e il modello berlusconiano- che potremmo dire coincidente con la seconda Repubblica- che ha ormai esaurito la propria spinta innovatrice iniziale.

Questo spazio, in divenire, occorre indagare, conoscere e interpretare, per restituire alla politica il ruolo di guida dello sviluppo, economico, sociale e culturale del Paese e soprattutto per riempire quel gap, quel vuoto che oggi rischia di delegittimarla e allontanare definitivamente i cittadini.

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